Metamodello seconda parte. Gli operatori modali

Metamodello seconda parte

Gli operatori modali

Continuiamo in questo post a parlare del metamodello.

Nel post precedente abbiamo esaminato i quantificatori universali, ora prenderemo in considerazione gli operatori modali, che suddivideremo in operatori modali di necessità e di possibilità. Iniziamo con il dire che tra gli operatori modali di possibilità troviamo tutte quelle risposte che comprendono termini come “non posso”.

Ad esempio, immaginiamo di parlare con un nostro amico che ci dice “Non posso svolgere questo lavoro”, oppure “È impossibile questa situazione, non posso…”.

Sappiamo di non dover replicare con un “perché”, ma cercare di spostare il focus mentale del nostro amico sulla soluzione del problema, quindi la frase che useremo sarà “Cosa ti impedisce di..”, “Chi ti impedisce di…”.

Tra gli operatori modali di necessità rientrano le frasi che contengono il termine “devo”, ad esempio:

Devo assolutamente fare quella cosa..
È necessario che la faccia, a tutti i costi

Se vogliamo spostare il focus del nostro interlocutore sarà utile porgli domande del tipo:

“Cosa succederebbe se…”,
oppure “Cosa accadrebbe se…”.
Abbiamo infine le “presupposizioni”: vi rientrano tutte quelle frasi come:

– Entro quanto tempo mi consegna?
– Paga oggi o domani?
– Preferisce pagare in contanti o tramite assegno?

Sono detti presupposti, perché si presuppone che la determinata azione di cui si discute sia comunque accettata, infatti è situata tra due alternative per noi comunque valide.

Ad esempio il dire “Paga oggi o domani?” sottende il fatto che comunque verremo pagati.

La frase che potremo usare per difenderci da qualcuno che vuol venderci qualcosa usando una presupposizione sarà “Cosa ti porta a credere che accetterò?”

 

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Processo di distorsione

 

Il cervello non filtra la realtà solo attraverso il processo di generalizzazione, ma anche tramite altri due processi: il processo di distorsione e quello di cancellazione, classificabili anche loro in potenzianti o limitanti.

La distorsione consiste nell’operare cambiamenti nella nostra esperienza di dati sensoriali.

Grazie alla distorsione è possibile fantasticare cose non vissute, scrivere poesie o romanzi ecc.

La distorsione permette al nostro cervello di immaginare eventi, dandoci la sensazione di averli vissuti.

La distorsione temporale consiste nell’utilizzare una serie di espressioni che modificano la percezione del tempo; infatti, come lascia intendere la parola stessa, distorce la realtà e la configura al nostro modo di pensare.

Ovviamente è potenziante se distorciamo la verità in modo positivo e limitante quando lo facciamo in modo negativo.


Tra le distorsioni più comuni troviamo:

– la lettura del pensiero
– i processi di causa ed effetto
– equivalenza complessa
– le nominalizzazioni
– il giudizio

Vediamoli meglio.

Innanzitutto la domanda che dobbiamo fare quando ci troviamo a che fare con un processo mentale di distorsione è “In che modo?”, oppure “Come fai a saperlo?

Prendiamo ad esempio il primo caso che abbiamo detto essere un particolare processo mentale chiamato “lettura del pensiero”: in cosa consiste e quando lo troviamo in una comunicazione?

Lo troviamo nella tipiche frasi “Lo so a cosa stai pensando” oppure quando, senza far finire di parlare una persona, l’altro già lo incalza con la frase “So già quello che stai per dire”, o “Stai pensando quello che sto pensando io?”

Quando qualcuno ci dice “Lo so che le sto simpatico”, impariamo a replicare con “Come fai a saperlo?”

Passiamo poi ai “processi di causa-effetto”: in questo caso abbiamo la considerazione che se x … allora y…, cioè ad azione x, avviene di solito y.

Facciamo un esempio: “Non sei puntuale, perciò non sei una persona seria”, oppure “Dire donna è dire danno”, oppure “Non mi hai salutato ieri, sei arrabbiato con me!”

Le domande antidoto da rivolgere in questo caso sono: “In che modo?”, “È sempre così?”, “Succede sempre così?”

Rientrano nel processo di distorsione anche le cosiddette “nominalizzazioni”, al loro interno troviamo l’uso di parole astratte che non provengono esattamente da verbi.

Infatti spesso usiamo dei termini astratti che lasciano intendere qualcosa, ma non specificano bene cosa.

Faccio un esempio: “Ciao Carlo, volevo chiederti se avevi cosato quella cosa lì”, altro esempio: “Hai faxato nel pomeriggio quella lettera?”

Alla nominalizzazione non appartengono solo nomi, ma anche verbi non specifici; ad esempio, il verbo andare non è specifico, invece il verbo camminare è molto più specifico.

Ancora, se usiamo capire non è molto specifico, respirare invece è molto più specifico.

Nel processo mentale denominato “giudizio”, troviamo critiche sull’identità, oppure frasi usate come verità assolute, ad esempio “Sei permaloso”, “Sei stupido”, ecc.

La domanda antidoto da porre in questo caso è: “Chi lo dice?”; ad esempio, alla frase “Lo sanno tutti”, è bene rispondere “Tutti chi?”

Impariamo a difenderci da queste frasi che potrebbero ferirci, iniziamo a domandarci “Sono persone che conoscono il caso?”, “Li conosciamo noi?”, “Ma chi sono questi”?

 

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Cancellazione

Abbiamo, infine, la cancellazione.
Nella cancellazione troviamo cose che sono state inconsapevolmente omesse.

Con questo procedimento preferiamo in genere certe dimensioni della nostra esperienza, ma ne escludiamo anche molte altre.

Ad esempio in questo momento, mentre continuo a scrivere queste parole seguendo il flusso dei miei pensieri, il mio cervello sta permettendo al corpo di respirare, deglutire, battere le ciglia e svolgere mille altre funzioni.

Il mio cervello, quindi, in questo momento sta filtrando mille informazioni; un gran lavoro, ma non lo fa affiorare a livello cosciente proprio per semplificare il mio modo di vivere, cancella le informazioni che non sono utili, mentre quelle utili ma non indispensabili al momento, le conserva momentaneamente nell’inconscio.

Saranno riesumate solo in caso di necessità, oppure qualora rivivessimo un episodio analogo che ci ricordi quell’informazione.

 

Come può questo “filtro” della mente aiutarci a comunicare meglio?

Pensiamo ad alcune forme linguistiche che caratterizzano la cancellazione, tra queste troveremo “nomi e verbi non specifici” (es. “…è stato bello”, “…sono arrabbiato”ecc.)

Facciamo un esempio, quando domandiamo ad un amico “Come va?” a volte capita che ci risponda “Bene”.
Ci domandiamo mai che razza di risposta è? Non ci ha detto niente!

Che significa bene?
Che rappresenta nella sua mente il significato di questa parola?
Se non lo dice non lo sapremo mai.

È utile in questi casi porre delle domande “antidoto”, che portano l’altro ad essere più preciso e a prendere più contatto con la realtà.

Una cancellazione di tipo semplice può essere: “Ho paura”.

È bene replicare, per essere più precisi, con la domanda “Di cosa in particolare?”; oppure, se ci viene rivolta la frase “Non mi ascoltano” possiamo replicare con “Chi, in particolare?

Spesso la cancellazione la troviamo verso la chiusura della vendita quando il cliente dice che il prezzo è troppo alto, la domanda “antidoto” classica da rivolgere in questi casi è “Rispetto a cosa?”

Come usare il metamodello

Questo modo di porre domande è conosciuto anche con il nome di metamodello, o linguaggio di precisione, e ci aiuta a comunicare meglio con gli altri, ma anche e soprattutto con noi stessi.

L’unica accortezza da aggiungere è di stare attenti, perché se provate ad usare il metamodello così come è scritto in questi due post fino ad ora, di certo vi creerete molti nemici.

Mi spiego meglio: immaginiamo che un nostro amico, in un momento di sfogo, ci dica “Non mi capisce mai nessuno”. Non possiamo replicare semplicemente “Ma proprio nessuno? Sei certo?”, oppure “Nessuno, nessuno?”

Ancora, può capitare che domandiamo “Come stai?”; se l’altro ci risponde “Bene”, non possiamo replicare usando subito il metamodello dicendo “Che significa bene, cosa intendi?”, oppure “Proprio… tutto bene?”

L’unica cosa che potremo ottenere è innervosire i nostri amici, che ad un certo punto inizieranno ad evitarci.

La cosa da fare, allora, è stabilire prima di tutto un buon rapport con l’altro, ascoltando quello che ha da dirci fino in fondo, senza anticipare alcuna risposta e rispettando la sua opinione.

Nell’ascoltarlo è bene applicare un vero e sincero ascolto empatico, e quando dobbiamo fare una domanda è meglio aggiungere prima di tutto uno stroke.

Stroke significa carezza, quindi quello che dobbiamo fare è far precedere la domanda da una parola gentile, che abbassi l’emotività o comunque rafforzi il rapporto positivo.

Facciamo un esempio: alla frase “Non mi capisce mai nessuno”, potremo replicare applicando prima di tutto un ascolto empatico, poi dire “Capisco come ti possa sentire in questo momento, ma scusa, (stroke) mi permetti una domanda? Da chi in particolare non ti senti ascoltato?”

La parola “scusa” e la frase “mi permetti una domanda?” sono gli strokes, cioè le carezze emotive che fanno sentir capiti, abbassano l’emotività e creano un buon rapporto empatico tra due persone.

Senza questi accorgimenti avremo solo risposte di chiusura, tese ad evitarci ed essere etichettati come dei rompiscatole; infatti sarà difficile, dopo aver rotto le scatole con delle domande a raffica, recuperare un buon rapporto con il nostro interlocutore.

Sicuramente la prossima volta che gli chiederemo “Come va?” o non ci risponde o potrebbe anche dirci: “Non lo so, ma sappi che sto bene così! Ciao”.

 

Metamodello seconda parte. Gli operatori modali

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